la passione di Cristo nelle antiche immagini a stampa
una mostra a cura di Gianfranco Ferlisi
31 marzo 2010– 25 aprile 2010
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Quaranta preziose immagini a stampa, dei secoli XVII e XVIII, una mostra sul tema della passione di Cristo, trasformano, nel periodo pasquale, la navata unica della Madonna della Vittoria. Le immagini, organizzate in sezioni, prospettano, nel linguaggio dell’arte, gli ultimi drammatici momenti della vita e morte di Cristo, figlio di Dio e fatto uomo.
Si dipana così un breve ma intenso racconto, una umanissima storia che porta in scena la commozione secolare della Pasqua cristiana. La narrazione non cerca di ricostruire una sorta di Via Crucis laica: vuole semplicemente ripercorrere una storia che è cominciata a Gerusalemme e di cui il Golgota è diventato espressione emozionale e simbolica. Vuole rimandare al Messia e alla sua immagine costantemente presente nella nostra cultura, al «pensoso palpito», all’«astro incarnato nell’umane tenebre»: la passione di Cristo, lo spiegava bene Mario Luzi, è una sorta di archetipo della nostra cultura, un exemplum tanto unico che non lascia indifferente neanche chi non crede.
La passione, nelle rappresentazioni a stampa, può apparire a prima vista immagine ripetitiva, perché ispirata ad una vicenda raccontata innumerevoli volte nella sintetica icasticità dei quattro Vangeli. In realtà questa medesima vicenda dà luogo a reiterazioni costantemente diverse, costantemente aggiornate da una ricchezza empatica che il cristianesimo da secoli ci trasmette, con le parole, con le immagini, con i silenzi. Da quasi duemila anni gli artisti si sono cimentati sul tema iconografico della passione e tutti hanno cercato di far rivivere al loro Cristo il momento più alto e più tragico della sua umanità, dei suoi patimenti, delle sue perplessità di fronte al tradimento, al martirio, al cammino incontro alla morte. E da allora feroci carnefici, pilatesche lavate di mani, sommi sacerdoti, centurioni, cavalli, donne più o meno pie, discepoli latitanti, fruste, dadi, sangue e la durezza dei chiodi, del dolore e della pena delle croci rivelano tutto ciò che l’uomo può percepire e sopportare, fino all’estremo dubbio, fino allo smarrimento della propria identità, fino all’orrore di non sentire più l’alito dell’Onnipotente.
È un racconto semplice quello che transita nelle stampe sulla passione di Cristo, un racconto che ha un unico e superbo protagonista, espressione, in un silente monologo, dello svuotamento della sua divinità, fattosi ultimo degli uomini.
Le parole di Giovanni ci introducono al Cristo flagellato, a memorie sacre e a memorie d’arte. Ma sullo sfondo resta sempre la passione, il patimento prolungato ed estremo, impudicamente divulgato e deriso. Il Cristo è in scena, dileggiato col suo mantello di porpora e con la corona di spine mentre risuona la voce di Pilato: «Ecco l'uomo!». La passione da adesso si può snodare sulle tappe del Calvario fino agli spasimi della crocifissione, fino alla Deposizione dalla croce, che Nicolas Dorigny traduce da Daniele da Volterra o Jean Thouvenin da Peter Paul Rubens e Anton Van Dick o Gaetano Guadagnini dal Cigoli: siamo al racconto della parascéve, quella vigilia del sabato in cui Giuseppe di Arimatea, «comprato un lenzuolo», calò il Cristo morto dalla croce.
Il dramma è oramai giunto a compimento. Nessuna eco degli osanna risuona più. Il potere, l’ipocrisia, i Barabba sono poco più in là, a farsi beffe della giustizia, dei ciechi e degli storpi risanati, dell’amore del prossimo, della dimensione introspettiva dell’Eterno, della sensibilità dei giusti. Ora il Cristo giace ai piedi della Croce: nelle rappresentazioni di Cornelis Galle il vecchio, nelle traduzioni di Anton Van Dick o di Ferdinando Gregori da Aurelio Lomi Pisano o di Pierre Charles Baquoy da Daniele da Volterra, viviamo il dolore della madre sul corpo morto del figlio. La scena sacra si coniuga con una bellezza declinata sulle corde di una tradizione oramai tanto assimilata alla nostra quotidianità da renderci assuefatti ad essa. Ma l’immagine della Pietà, in un soggetto difficilmente separabile, nell’immaginario comune, dalla venerazione mariana, si illumina di una ricerca estetica delicata e poetica. E la bellezza di questa Pietà nella passione assume il ruolo di perfetta metafora della congiunzione di umano e divino.
Quindi la scena si sposta perché, come narra Giovanni, in prossimità del «luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo». E «là dunque deposero Gesù». Le stampe (Gilles Roussellet da Tiziano, Pierre Audovin da Caravaggio, Robert De Launy da Sebastiano del Piombo, Abraham Blois, Giulio Tomba da Prospero Fontana, Johan Nepomuk Muxel da Poussin, Francesco Spagnoli da Lattanzio Gambara, Francesco Rosaspina dal Bassano, François Godefroy da Annibale Carracci, Jan Poples e Germain Michault da Andrea Schiavone, Gaspaer Duchange dal Veronese, Joaquin Ballester da Alonso Cano, Rombout Eynhoults da Palma il giovane) interpretano l’emozione di fronte alla pittura dei grandi maestri ed esaltano il pathos dei sentimenti. Qui il muto linguaggio dei gesti parla di fede o, più semplicemente, invita lo sguardo a seguire le linee del corpo del Messia, nell’elegia della fragilità della condizione umana e della sua vanitas, nella commozione eterna dell’addolorata.
Il racconto delle antiche immagini a stampa in mostra esalta, anche se in una dimensione che può sembrare piccola, le grandi mete della pittura europea, ci testimonia la diffusione dei traguardi più elevati della grande civiltà pittorica. Ma questi fogli a stampa sono essi stessi vettori di qualità estetica, costruttori di una parallela grande armonia ricavata dall’essenzialità del bianco e del nero.
Di fronte a queste incisioni, a queste piccole grandi opere, viene da domandarsi da dove emerga la tensione che esse esprimono verso la bellezza, la traccia che esse conservano, in particolare, nei riguardi di una pur sempre lontana e indecifrabile epifania del divino. Ma la bellezza di un racconto fatto di disegno, di chiaroscuro, di inchiostri anche stinti, è di per sé indizio dell’aspirazione a un’arte che può diventare metafora del mistero della rivelazione, capace di esprimere vicende difficilmente raccontabili, come l’atrocità della morte di croce, o capace di dirci fino in fondo la sofferenza di una divinità svuotata per amore: «Ecco l’uomo!»
La Chiesa, in fondo, ha sempre saputo che la ricerca della bellezza può avvicinare al divino e alla sua manifestazione: così risulta coerente, perfettamente adeguata, la relazione tra opere e contenitore, il dialogo tra le stampe sulla Passione di Cristo e la sacralità di un edificio dedicato alla Madonna della Vittoria, impregnato di simboli cristologici e mariani. Anche l’apertura della rassegna in coincidenza con la settimana santa è scelta consapevole, per indurre un momento ideale di riflessione sul tema iconografico della passione. I fogli selezionati, quasi sempre racchiusi in incorniciature coeve, si integrano infine perfettamente anche con l’imagerie sacra dei simboli della passione affrescati, all’interno della chiesa, nella sopravvissuta piccola cappella tardo cinquecentesca, una cappella che, come tramanda un inventario del 1671, ospitava l’altare di Cristo.
(Gianfranco Ferlisi)